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Recensione: IL REGNO D’INVERNO. È in sala il film Palma d’oro a Cannes (ed è un grandissimo film)

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33b9877707f1c62846e6e9a94d27e8dbIl regno d’inverno (Winter Sleep), un film di Nuri Bilge Ceylan. Con Haluk Bilginer, Melisa Sözen, Demet Akbağ, Ayberk Pekcan.
6fc0f0fba9bb4967e71060a48e06c11531ff29fbaa34ec38fa5fc02deefbf8a1Il maggiore regista turco spiazza tutti con un meraviglioso film di 3 ore e venti dove, al posto delle sue solite sequenze contemplative e senza parole, si parla molto, moltissimo. Cinema di conversazione, e anche di confronto-scontro di caratteri, tra Cechov e Strindberg. Con un ex attore che si è ritirato nei suoi possedimenti in Cappadocia, la sua giovane moglie insoddisfatta, la sorella reduce da un divorzio. Un interno-inferno di famiglia, mentre là fuori domina la potenza della natura. Voto 9
0213537b611ff4bc9c218f9ded766c15Nuri Bilge Ceylan deve essersi stancato di sentirsi dire dai suoi (molti) detrattori che il suo cinema è troppo pieno di silenzi, di sequenze contemplative dove ‘non succede mai niente e non si capisce niente, eccheppalle!’. Bene, stavolta il gran turco di C’era una volta in Anatolia spiazza tutti, i detrattori ma anche gli estimatori (tra i quali mi colloco dai tempi di Uzak). Realizzando un film parlato, parlatissimo, dove le sue famose interminabili carrellate su paesaggi preferibilmente brulli e flagellati da tutte le intemperie ci sono sì, ma assai ridotte rispetto al solito, un film che è volutamente e smaccatamente teatrale, con dialoghi complessi e mirabilmente cesellati anche se di immediata presa e fruizione. Si tratta in fondo, e nonostante le molte escursioni all’esterno – siamo nel meraviglioso e lunare paesaggio di quella Cappadocia di abitazioni rupestri già usata da Pasolini come Colchide in Medea – , un kammerspiel, una commedia, un dramedy a porte semichiuse all’inizio abbastanza cecoviano e poi sempre più cattivo e crudele, sempre più dramma ibseniano-strindberghiano, con un confronto serrato e senza esclusione di colpi tra il protagonista Aydin e le due donne che gli stan vicino, e intorno un nugolo di personaggi non così minori, non così collaterali, anzi. Con trame e sottotrame e traiettorie che si intrecciano, denunciando una cura minuziosa in sede di sceneggiatura. Aydin è un signore maturo di molti beni laggiù in Cappadocia, di una famiglia di possidenti da generazioni, per 25 anni ha fatto l’attore teatrale, poi si è ritirato lì, in quella terra lunare, a gestire un piccolo hotel con stanze scavate nella roccia chiamato Hotel Othello e meravigliosamente shabby chic da andarci subito. Produce articoli per un giornale locale, ma l’ambizione è quella di scrivere una storia definitiva del teatro turco. Con lui abita la sorella, reduce infelice da un divorzio, e la giovane e bellissima moglie, in preda a continue crisi bovaristiche e organizzatrice di cose charity per sentirsi utili e non solo appendice di quell’intelligente, ma ingombrante marito. Tre anime insoddisfatte, che da quelle parti si sentono in esilio e che, come le sorelle cechoviane, non fan che sospirare, pur se per diversi motivi, ‘A Mosca, a Mosca!’, con la differenza che la loro Mosca è l’adorata, sempre sognata Istanbul. All’inizio tra Aydin e le due donne son bonarie schermaglie, poi le cose precipitano, si incattiviscono, tra rinfacci e scoperchiamenti di insoddisfazioni e colpe vere o presunte. Winter Sleep parte magnificamente, con quella scena della sassata al furgone di Aydin e del suo tuttofare-bracciodestro lanciato da torvo ragazzino di una famiglia poverissima, con padre alcolista appena uscito di galera e uno zio imam, l’unico a portare a casa qualche soldo. Adottando un cinema della minaccia e dell’allusione alla Haneke, Nuri Bilge Ceylan ci fa subito capire che in quel paradiso adorato dai turisti più raffinati il disordine è in agguato, violenza e caos son pronti a riprendersi il mondo e le esistenze. Winter Sleep dura 3 ore e venti, ma vi assicuro che non ci si annoia. Naturalmente non mancano le scene che portano impresso il suo marchio. La magnificenza di paesaggi che tutto ingoiano e sovrastano. Gli altipiani anatolici d’inverno sotto la neve. Ma stavolta il sommo regista non si adagia nei suoi manierismi e scommette forte e coraggiosamente su un cinema-drammaturgia, vincendo la sfida. Realizzando un film che è profondamente turco e insieme connesso alla cultura occidentale (quel dialogo sull’opportunità o meno di perdonare il male è puro Bergman). Aydin è l’intellettuale turco con uso e conoscenza di mondo, ma che ha le radici lì, nell’Anatolia più profonda e non se ne stacca. Giustissimamente premiato a Cannes con Palma d’oro, anche se la stampa francese più chic e più cinemaniacale ha arricciato il naso, subito seguita e imitata da certi nostri critici e critichini sempre prona e pronta ad adeguarsi al suo giudizio. Tant’è che sui social già è cominciato il cecchinaggio di Il regno d’inverno. Non ascoltateli, e correte a vederlo.


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